MATTEO GIRONI

ottobre – dicembre 2014

Matteo Gironi. Secondo Natura. 

Il primo impatto è visivo. 

Forme sinuose che si estendono e indietreggiano sulla superficie dello sguardo, le opere di Matteo Gironi accolgono la materia del feltro, della cera d’api, il pigmento di colore in un abbraccio sorprendente  di epidermidi tese, vellutate, malleabili, pronte ad accogliere l’imprevedibile accadere della vita che le trasforma, segnandole in modo lieve o deciso. 

Opere come metafore del quotidiano mutamento, eppure cariche di un sapere secolare, nella loro decisa appartenenza al contemporaneo: scrigni preziosi sui quali l’artista inscrive la conoscenza della tradizione nell’innovazione. Come un tempo le tavole di cera accoglievano l’esperienza della vita dell’uomo, i lavori di Gironi hanno la quieta e imprevedibile sapienza degli antiqui, pur rivolgendosi a noi moderni. O meglio, postmoderni. 

La natura, la storia. Il problema della forma e l’identità del materiale. La necessità delle cose. La libertà di pensiero, dichiarata, sempre, attraverso il fare. 

Sono questi i punti di partenza e di eterno ritorno sui quali si svolge la trama della ricerca artistica di Gironi, la cui formazione in ambito architettonico, alla quale si accompagna da sempre l’interrogarsi sul senso del costruire e del progettare, incide con una certa profondità sulla sua indagine artistica. 

E in effetti, a ben guardarle, le sue opere sono architetture consapevoli della storia dell’arte, e opere d’arte consapevoli della storia dell’architettura. 

Evidente è il legame con le poetiche dello Spazialismo, avviate dal rivoluzionario indagare oltre la bidimensionalità della tela da parte di Lucio Fontana, proseguite dall’inquieta eredità dei Bonalumi, Castellani, Scheggi, tra estroflessioni e introflessioni della materia pittorica, fino alle estensioni nell’ambiente.

Meno esplicito, protetto dallo stesso artista come segreto intimo della sua poetica nelle trame cangianti delle opere, è invece il profondo pensiero che lo ha portato, negli anni, a scegliere di indagare il materiale, di interrogarlo nella sua naturale necessità, per poi traformarlo e formarlo in opere di altissima fattura estetica. 

In questo procedere, riecheggiano i modelli architettonici, quello di Frank Lloyd Wright e di Louis Kahn: il primo, in dialogo con il Grande Spirito della Natura, attento a cercare la profonda identità nelle cose; il secondo, capace di interrogare i mattoni, e di ascoltare il loro voler essere archi. 

Matteo Gironi interroga il feltro, interroga la cera, interroga il pigmento di colore. Si fa da questi interrogare. Li lavora con una manualità di ispirazione femminile, rifiutando l’imposizione perentoria, metaforicamente maschile, sulla materia. Piuttosto, ne asseconda e ne stimola le reazioni, intrecciandole e sovrapponendole con la pazienza dell’ignoto. 

Moduli di straordinaria musicalità, le sue opere accolgono così la variazione nella ripetizione di un frammento originario e originante, ottenuto con la peculiare curvatura del feltro, materiale che naturalmente si offre a questa ricerca. Dalle prime, dove i moduli presentano dimensioni maggiori, trame meno fitte, ombre e concavità più accentuate, alle più recenti, dove l’affinamento della tecnica si traduce in superfici di raffinata modularità, le sue opere sono monumentali e ampie vallate, dove segni nel paesaggio si ergono o nascondono, indicando la strada allo sguardo. 

É la monumentalità del frammento, dalla prima pietra posata dall’uomo, il menhir come elemento “ordinatore” dello spazio, ad interessare l’artista che tale funzione consegna ai moduli delle sue opere, chiamati a misurare lo spazio delle introflessioni. E la stessa cosa accade nei soffitti barocchi, in cui sono i personaggi a misurare lo spazio: così afferma Gironi, rievocando un’altra infinita rete di riferimenti che si avviluppano e svolgono, mutevoli come le sue opere, dall’oggi sino al Barocco, un altro terreno importante della sua indagine. 

Il Barocco ovvero la tensione allo spazio nella sua distorsione, il brivido dell’ordine franto, la vita con tutte le sue imprevedibili asprezze e inaspettate dolcezze che  entra e determina sinuosa le forme: così, i grandi moduli delle prime opere di Gironi si pongono al nostro sguardo con violenta fisicità, totem di un fatto che si piega dall’origine alla fine delle cose; le opere più recenti, dove il modulo si rimpicciolisce e moltiplica, ci raccontano di piccoli eventi, non ineluttabili ma possibili. 

Eventi ai quali l’artista non dà nome, titolando invece le opere con termini che rimandano alle forme assunte dai materiali, secondo natura: Emersioni, Introflessioni, Buchi, o ancora più semplicemente Forme

Corpi che ci guardano e ci chiamano a prendere una posizione: non solo davanti a essi, ma a noi stessi. 

Ilaria Bignotti